La barchetta di carta

C’era una volta una barchetta di carta che galleggiava all’interno di un grande secchio d’acqua.

Aveva di fronte un cubetto di ghiaccio.

Lo urtò e colò a picco.

C’era una volta una grande barca, di legno e metallo, che galleggiava in mezzo al mare.

Aveva di fronte un enorme blocco di ghiaccio.

Lo urtò e colò a picco.

C’era una volta la nostra società, all’inizio del 2000, che evolveva sull’onda del progresso e della tecnologia.

Aveva di fronte la realtà.

La urtò e colò a picco.

Torniamo indietro.

Il bimbo non sapeva che la barchetta non sarebbe sopravvissuta al cubetto.

Il marinaio sapeva che la grande barca non sarebbe sopravvissuta al blocco di ghiaccio.

La nostra società fa finta di non sapere che non resisteremo allo shock di un progresso soltanto tecnico.

Torniamo ancora indietro.

Le conseguenze del gesto del bimbo sono inesistenti, ed eventualmente positive.

Gioco ed esperienza.

Le conseguenze del comportamento del marinaio sono gravissime.

Il progresso tecnico va accompagnato dall’apprendimento e dall’umiltà.

Le conseguenze di una società disumanizzata sono incalcolabili.

Ancora una volta.

La carta finì nel cestino.

La nave in fondo al mare.

La società ritornerà a uno stato preindustriale per molti e tecnico apatico per pochi.

Il fattore umano, non inteso soltanto come percentuale di rischio, ma soprattutto come ricchezza e imprevedibile armonia scade a mano a mano che il tempo scorre.

Il bambino, ed il suo gesto, inviano un messaggio di serenità, scoperta e gioia.

Il marinaio cede al bisogno di performance senza considerare il rischio e trascina con sé ceti diversi in viaggio per motivi diversi.

La società sempre più sotto il controllo di pochi crea paure travestite da competizione, toglie serenità e tempo al pensiero, impoverisce gli animi.

Qualche giorno fa, cinque esseri umani, chiusi in una scatoletta di tonno, hanno perso la vita in fondo al mare.

In quel fondale dove sono andati con le loro forze, e che li ha attirati per tanti motivi.

I soldi, la fama, una probabile esperienza di vita non hanno potuto controbattere una tecnologia senza controllo e lo spettacolo della sofferenza altrui vissuta in prima fila, ma non in prima linea.

Perché non fermarsi soltanto in superficie, sulla verticale del Titanic, rivolgere il pensiero alla sofferenza di quella notte e allo strazio dei morti e dei sopravvissuti.

Perché non formulare una preghiera per quelle anime che forse non hanno ancora trovato pace e chiedono suffragio.

Perché dimenticare sempre che l’amore alimenta anche la vita di chi lo dà.

In memoria.

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